L’articolo 3, comma 2 dello statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000) così recita: In ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti.
Le norme contenute nel decreto legge Omnibus, approvato in via definitiva il 4 ottobre, che impattano sul concordato preventivo con scadenza 31 ottobre, sono dunque in violazione di quella che dovrebbe essere una sorta di costituzione tributaria. La sanatoria per gli anni 2018-2022 è infatti vincolata all’adesione al concordato preventivo, che deve essere fatta entro fine mese.
C’è quindi un problema di legittimità, oltre a quello, molto più pratico, di intasamento degli studi professionali che, in pochi giorni, sono chiamati a studiare le situazioni di gran parte dei loro clienti per poi consigliarli sull’adesione o meno. Un tema molto sentito dai professionisti, tanto che nei giorni scorsi sia i sindacati più rappresentativi, sia il Consiglio nazionale hanno chiesto una proroga. Richiesta respinta dalla Ragioneria dello stato per conto del ministero dell’economia. È evidente però che una mancata proroga può compromettere un numero significativo di adesioni. Un tema che sta molto a cuore al ministro dell’economia Giorgetti e al viceministro Leo, ed è proprio per incentivare al massimo i contribuenti che il meccanismo del concordato preventivo, che originariamente aveva sollevato scarso interesse, è stato prima notevolmente ammorbidito e poi affiancato con un’esca decisamente più appetibile come la sanatoria per i 5 anni passati. Un piccolo ricatto che suona più o meno in questi termini: se vuoi sanare il passato devi aderire al concordato per il futuro. Non solo. Per rendere ancora più convincente l’invito ad aderire, al ministero dell’economia hanno pensato di affiancare alla carota anche il classico bastone, ovvero l’inasprimento delle sanzioni accessorie. In pratica chi rifiuterà la proposta del fisco rischia, in caso di accertamento tributario che ridetermini un maggior reddito d’impresa di 40 mila euro (cui consegue una sanzione amministrativa di circa 28 mila euro), l’interdizione dalle cariche di amministratore, sindaco o revisore, l’interdizione dalla partecipazione a gare per l’affidamento di appalti e forniture, l’interdizione o la sospensione di licenze, concessioni o autorizzazioni amministrative per l’esercizio di imprese o lavoro autonomo, o la sospensione dell’esercizio dell’attività. Per un periodo di almeno tre mesi, che può essere elevato a dodici mesi nei casi più gravi. Evidente che chi teme di incorrere in una simile sanzione, soprattutto quando questa può compromettere l’esercizio della sua attività principale, avrà un solido motivo in più per l’adesione al concordato e alla sanatoria retroattiva. Pare quindi che con le ultime modifiche il fisco sia riuscito a rendersi convincente per una bella fetta di contribuenti. Si è dimenticato solo di un piccolo dettaglio: il tempo necessario ai contribuenti per capire, decidere ed eventualmente per fare l’operazione.
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