Dal sostegno al settore dell’auto, cardine della manifattura made in Italy, a quello della Difesa. I 4,6 miliardi previsti dalla Manovra per supportare le politiche industriali legate alle quattro ruote e all’indotto passano di mano, cambiando destinazione. Un segno dei tempi. Per certi versi molto preoccupante. Visto che a guadagnarci, in questo nuovo orientamento, sarà l’industria più orientata al militare che al settore civile.
I soldi, senza una modifica in sede parlamentare, finiranno allo sviluppo nel settore aeronautico, alla tecnologia per la difesa aerea nazionale (radar e sistemi di controllo), alle unità navali Fremm, le fregate di ultima generazione, e al settore marittimo. Un totale, si legge nelle tabelle allegate alla legge di bilancio, di 11,3 miliardi su un orizzonte temporale più lungo, che arriva al 2039. Sostanzialmente nuove risorse per Fincantieri e Leonardo, ma anche per tutte le imprese del comparto che sono specializzate in queste nuove tecnologie per la difesa del Paese.
Come detto la legge di bilancio 2025 certifica con le tabelle di accompagnamento il definanziamento per 4, 55 miliardi del Fondo Automotive gestito dal ministero delle Imprese e del Made in Italy. Restano a disposizione, fanno notare Anfia e sindacati, circa 1,2 miliardi per una sforbiciata complessiva che arriva all’80 per cento. Il Fondo, voluto da Mario Draghi, aveva 8,3 miliardi di finanziamento provenienti. E ne ha già utilizzati 3 per spingere sulla transizione green, ovvero per finanziare gli incentivi all’acquisto di auto a basse emissioni e le agevolazioni alla filiera produttiva.
IL DECALAGE
Il taglio al fondo dell’automotive vale 2,2 miliardi nel 2025 e 2,4 dal 2026 al 2030. Il Mimit perde anche 95 milioni in un triennio per i contratti di sviluppo del settore industriale. Nella sezione II si incontra il rifinanziamento a regime delle missioni internazionali (1,27 miliardi nel 2025, 1,57 dal 2026), che non andranno più rincorse di manovra in manovra, o il prosciugamento del fondo delega fiscale (14,1 miliardi in cinque anni per stabilizzare l’Irpef a tre aliquote avviata quest’anno).
Tornando all’auto, sia le imprese del settore, Stellantis in testa, che la filiera sperano in un ripensamento. Fim, Fiom e Uilm esprimono a questo proposito profonda preoccupazione: «in un momento in cui l’intero comparto automotive si trova in una fase di profonda trasformazione e crisi, risulta fondamentale un forte sostegno per garantire la competitività del settore, la difesa dell’occupazione e l’innovazione tecnologica, indispensabile per affrontare le sfide del futuro».
LA CIG
Del resto a inizio anno sarà anche necessario da parte del governo rifinanziare la cassa integrazione in scadenza per gli stabilimenti Stellantis e per molte imprese dell’indotto in difficoltà. Sono a rischio, senza il rinnovo, oltre 25 mila posti di lavoro, denunciano i sindacati.
L’ALLARME
Ma le organizzazioni sindacali temono, sulla scia di quanto annunciato dalla Volkswagen, che Stellantis segua il modello tedesco. Ovvero che chiuda gli stabilimenti. Del resto i dati sulla produzione sono allarmanti per Mirafiori, Melfi e Cassino. Gli operai delle carrozzerie di Mirafiori hanno lavorato 9 giorni da agosto in poi. Si prevedono ulteriori stop fino a fine anno (si lavorerà – stimano i sindacati – sulla 500 elettrica 9-10 giorni fino al 31 dicembre). A Cassino, che ha 2.500 dipendenti, il contratto di solidarietà scade a fine anno, e attualmente in fabbrica c’è la metà della forza lavoro. I 5.400 di Melfi, in solidarietà almeno fino a giugno 2025, lavorano, quando va bene, 2 giorni a settimana sulle catene di montaggio delle Jeep. Insomma, un panorama desolante. Sulla stessa barca, insieme a Stellantis, ci sono poi decine di aziende dell’indotto del settore automotive. Le più martoriate dalla crollo della produzione nel 2024 sono Magneti Marelli, Denso, Ma Group e Bosch.
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