Non c’è azienda oggi che non si vanti di essere “socialmente responsabile”. Sui loro siti web spiccano foto di bambini sorridenti, strette di mano multiculturali e slogan che parlano di inclusione, diversità e sostegno alle comunità. Ma quanto c’è di vero in questa narrazione? Quanto è autentico questo improvviso interesse per il sociale e quanto è invece puro marketing?
E’ proprio di questi giorni il caso Montblanc, di cui parla senza peli sulla lingua il sito di Non sprecare: se da un lato questo brand del lusso si ammanta di sostenibilità e di rispetto per le persone, dall’altra, tramite il solito giochino dei sub-appalti, paga 3 euro all’ora, con turni di lavoro giornalieri attorno alle 12 ore, operai pachistani e afghani, a Firenze.
Il fenomeno si chiama “social washing” ed è il greenwashing del momento. Se fino a ieri le aziende si dipingevano di verde per sembrare più ecologiche, oggi si tingono di “sociale” per apparire più umane. Ma dietro questa facciata splendente, troppo spesso si nasconde il vuoto.
La grande illusione
Prendiamo il caso delle politiche di diversity & inclusion. Quante aziende si riempiono la bocca di belle parole sulla parità di genere, per poi mantenere consigli di amministrazione quasi esclusivamente maschili? Quante parlano di integrazione multiculturale, ma nei ruoli dirigenziali la diversità resta un miraggio?
Le statistiche parlano chiaro: in Italia, nonostante gli annunci roboanti, solo il 24% dei ceo e il 32% dei manager è donna. E la situazione non migliora se guardiamo all’inclusione delle minoranze etniche o delle persone con disabilità.
Un bel cambiamento, invece, c’è stato nei Consigli di Amministrazione, dove, secondo l’ottava edizione del Deloitte Global Boardroom Program’s Women in the boardroom, in Italia il 40% dei posti nei Consigli di Amministrazione è occupato da donne; più della media mondiale (23,3%), e di quella europea (33.8%). I settori che hanno registrato i risultati migliori sono quello energetico, con il 45% di donne nei Board e quello dei servizi finanziari (42.1%). C’è però ancora da fare per le posizioni nelle C-suite: solo il 4% dei CEO e il 6% dei CFO sono donne.
Il business dell’apparenza
Il social washing è diventato un business redditizio. Consulenti ed esperti vendono a peso d’oro strategie per far apparire le aziende più “socialmente responsabili”. Si organizzano eventi, si producono report patinati, si lanciano campagne sui social media. Ma quanto di tutto questo si traduce in azioni concrete, pratiche quotidiane, cultura aziendale e si portano avanti nel tempo?
È facile postare su LinkedIn foto di dipendenti sorridenti che fanno volontariato. È più difficile garantire stipendi equi, orari di lavoro sostenibili, vere opportunità di crescita professionale per tutti.
La realtà dei numeri
I numeri non mentono. Mentre le aziende italiane investono milioni in campagne di comunicazione sulla responsabilità sociale, gli investimenti reali in programmi sociali continuano a essere marginali. Difficile trovare stime che quantifichino gli investimenti per il sociale (sia fronte dipendenti che comunità) realizzati dalle imprese. Dynamo Academy, insieme a Sda Bocconi, svolge un’indagine sulle aziende proprie partner, circa 30, un target quindi già sensibile al tema: eppure, meno del 2% (per lo più lo 0,5%) del fatturato viene destinato a iniziative concrete di impatto sociale.
Piccola nota: curioso che, sempre nel contesto italiano, secondo il Rapporto Welfare Index Pmi di Generali, nel welfare aziendale (che ricade in area social) le Pmi e le microimprese siano più virtuose delle grandi aziende; le Pmi spendono pro capite per il dipendente fino a 50 euro al mese per servizi di benessere psico-fisico, le grandi aziende non si spostano dai 2-3 euro.
E cosa dire delle condizioni dei lavoratori nelle filiere produttive? Mentre qui si celebra la diversità, troppo spesso si fa finta di non conoscere lo sfruttamento dei lavoratori nei Paesi al lato opposto del pianeta coinvolti nelle filiere di approvvigionamento.
Il risveglio dei consumatori e la stretta normativa
Ma qualcosa sta cambiando. I consumatori, soprattutto i più giovani, non si accontentano più di belle parole. Chiedono fatti, trasparenza, coerenza. Le nuove generazioni hanno gli strumenti per smascherare le operazioni di facciata e pretendono un impegno reale, lo dimostra la presa di coscienza molto evidente nel settore moda con la denuncia del ‘fast fashion’.
Al contempo, la stretta normativa europea sui temi legati alla sostenibilità nel suo complesso, sta restringendo notevolmente le zone franche in cui un’azienda possa infischiarsene del suo impatto ambientale o sociale. CSRD, CSDDD, Green Claims Directive (estendibile ai social claim) hanno il comune obiettivo di accompagnare le aziende all’onestà nella propria condotta e alla trasparenza nella propria comunicazione.
La via d’uscita
Il caso Balocco-Ferragni, lo scorso anno, è rimasto un emblema di social washing che ha impaurito molte aziende spingendole magari a rinunciare a una comunicazione delle proprie attività sociali per paura di incappare in una caccia alle streghe. Esiste un’alternativa al rischio di social washing? Certamente. È la via della responsabilità sociale autentica, quella che parte dall’interno delle organizzazioni e si traduce in azioni concrete, misurabili, verificabili.
Alcune aziende stanno già percorrendo questa strada. Hanno capito che l’impegno sociale non può essere solo una strategia di marketing, ma deve diventare parte integrante del modello di business. Hanno compreso che la vera inclusione richiede cambiamenti strutturali, non solo comunicativi.
Il social washing è una forma di inganno che non fa bene a nessuno: non alle aziende, che rischiano di perdere credibilità; non ai lavoratori, che vedono i loro diritti ridotti a slogan; non alla società nel suo complesso, che ha bisogno di un impegno reale per il cambiamento sociale.
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