“Il clima non è un settore diverso dagli altri rispetto al trattamento dei ricercatori. E infatti anche chi studia la crisi climatica se ne va per gli stessi motivi: precariato, baronati, lotte di potere diplomatiche che nulla hanno a che vedere con il lavoro di ricerca, stipendi miseri se confrontati con l’estero: pensi che un post doc in Germania viene pagato 60.000 euro annui”. Stefano Balbi ha lasciato l’Italia alcuni anni fa e oggi è un ricercatore presso il centro di ricerca Basque Centre for Climate Change, in Spagna, dove si occupa di sviluppo sostenibile e gestione delle risorse naturali e fa parte di ARIES (Artifical Intelligence for Enviroment and Sustanaibility).
Come lui, altri scienziati climatici hanno lasciato l’Italia per istituzioni straniere. Un flusso minore che fa parte di un vero e proprio fiume di laureati (soprattutto) e non laureati, che dal nostro Paese va all’estero. Lo racconta molto bene in un libro-denuncia da poco uscito – Stai fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via (Dedalo edizioni) – il ricercatore in immunologia al Max Planck Institute for Infection Biology di Berlino Alessandro Foti. “I giovani Italiani vanno in massa in Inghilterra, Germania, Francia, ma gli inglesi, i tedeschi e i francesi non ci pensano neanche a venire da noi. Quando questo processo, che si somma a quello delle migrazioni interne dal Sud verso il Nord, è fuori controllo, danneggia la comunità di partenza, depauperando soprattutto le regioni italiane meno sviluppate dei suoi giovani più preparati e attivi”, spiega Foti.
Siamo esportatori netti di laureati
Il libro è fatto di ragionamenti, ma soprattutto di numeri impietosi. L’Italia negli ultimi dieci anni ha perso oltre 1 milione di italiani – più degli abitanti di Napoli, terza città italiana – tornando a livelli di emigrazione che non si vedevano dagli anni Settanta. La metà di questi è composta da giovani tra i 15 e i 38 anni, che hanno, a differenza dei migranti italiani del passato, una formazione specifica. Tra chi lascia l’Italia tra i 20 e i 37 anni metà ha una laurea (in Italia, sono solo il 25%). Di fatto, “ciò significa che siamo esportatori netti di laureati, nonostante il fatto che ne abbiamo pochi”, afferma Foti.
Confrontati con i dati dell’immigrazione, i numeri dell’emigrazione fanno impallidire visto che, dal 2018 al 2021, secondo Fondazione Migrantes, sono sbarcati in Italia 131.210 immigrati, mentre hanno spostato la residenza all’estero, sempre secondo i dati della Fondazione Migrantes 2022, 497.240 italiani. Dove vivono gli italiani emigrati? Germania (822.000 italiani), Svizzera (639.000), Francia (464.000), Regno Unito (457.000), Belgio e Spagna. 2,4 milioni di italiani risiedono negli Stati Uniti (307.000 italiani), Argentina (921.000) e Brasile (558,000), meno in Asia e Africa.
Dal 2011 al 2022, certifica l’Istat, si sono cancellati dall’anagrafe circa 1 milione e 300.000 italiani e oggi secondo AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) “i connazionali residenti fuori dall’Italia sono circa 6 milioni, il 20% della popolazione residente in Italia”. Tra l’altro, occorre considerare che una fetta degli immigrati all’estero non è registrata ufficialmente all’AIRE, quindi i numeri potrebbero essere ben maggiori.
Stipendi di due o tre volte più alti
Parallelamente a questa emigrazione, esiste una immigrazione interna dal Sud verso Nord, con ritmi di circa 100.000 persone l’anno, che spesso vanno al nord per poi emigrare all’estero (evasione di rimbalzo). “Non si dovrebbe parlare di invasione, semmai di evasione”, polemizza Foti.
La fuga all’estero, secondo l’autore, va letta in maniera distante da due approcci. Il primo, quello degli intellettuali e delle élite culturali, che trova il fenomeno positivo, in linea con il mondo globalizzato. Figli di professionisti, manager o intellettuali vivono all’estero partendo da una situazione di privilegio. Il secondo approccio sbagliato è quello catastrofista e disinteressato insieme. Il punto è che, spiega Foti, “gli italiani migrano per cercare occupazioni meglio retribuite, più consone ai propri studi, per realizzarsi in un ambiente lavorativo e sociale più meritocratico”. E, ovviamente, per avere stipendi che consentano di vivere: nel 2023, in Italia la retribuzione netta a un anno dalla laurea, certifica AlmaLaurea) è di circa 1.384 euro laureati di primo livello e 1.432 per i laureati di secondo livello. I lavoratori del mondo accademico, escluse le posizioni apicali, hanno stipendi “scandalosamente bassi”. A parità di titolo, all’estero un giovane guadagna da due o tre volte lo stipendio che percepirebbe in Italia. In media, lo stipendio è alto del 61% in più rispetto ai connazionali non espatriati. Non solo: in Italia quattro trentenni su dieci con la laurea sono disoccupati o occupati ma con lavori per cui la laurea non è richiesta. Su 1,7 milioni di trentenni laureati, 19,5% è senza lavoro e un altro 19% fa un lavoro per cui la laurea non serve.
Un impoverimento drammatico
L’impoverimento dell’Italia a causa di questo fenomeno è drammatico: vanno all’estero italiani con idee, competenze, creatività e conoscenze. Si tratta di scienziati con alta formazione che lavorano in Università, centri di ricerca: basti pensare che due terzi dei tanti ricercatori italiani che hanno vinto gli ambiti ERC consolidator grants lavora in istituzioni straniere, portando fondi agli istituti esteri. L’Italia è anche il primo Paese di origine del personale scientifico internazionale presente nelle università tedesche, ma gli italiani sono anche il gruppo di stranieri maggiormente rappresentati al CNRS, il principale istituto di ricerca francese. E poi ci sono i lavoratori del mondo dell’hi-tech, dell’IT o eno-gastronomico, logistica e servizi (l’Italia, ricorda il libro, in dieci anni ha perso un quinto delle imprese giovanili).
Un altro dato interessante è che tra gli emigrati quasi la metà sono donne, di cui il 68% ha figli e lavora, al contrario dell’Italia dove sono solo il 40%. L’emigrazione genera in Italia carenza di capitale umano, ridotta crescita economica, riduzione del gettito fiscale, bassa produttività e capacità di innovazione, perdita di investimenti, abbassamento dei salari a lungo termine e drastico aumento del declino culturale e sociale. Secondo Confcommercio, il danno economico per l’Italia sarebbe di 14 miliardi l’anno, 1% del Pil.
Sono dati desolanti, anche perché, conclude Foti, “cosa cosa c’è di più importante di una comunità nazionale che tutela le proprie giovani generazioni, garantendo loro una prospettiva lavorativa e di realizzazione personale?”. Specie quando, se ben formate, le nuove generazioni possono contribuire a far avanzare lo sviluppo e la ricerca. In ambito economico e sociale, scientifico, medico. E, naturalmente, anche rispetto alla ricerca sulla crisi climatica e su come contrastarla.
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