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Bernini: più estero e più orientamento. Impariamo ad ascoltare gli studenti e le studentesse #finsubito prestito immediato


La ministra dell’Università e della Ricerca: «Per far tornare i ricercatori non basta tagliare le tasse, serve creare opportunità scientifiche. Il nodo dei piccoli atenei

Internazionalizzazione, diritto allo studio e flessibilità. Sono le tre direttive sulle quali lavora la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini per mettere in ordine le priorità del sistema accademico, che lei stessa definisce «un grande asset strategico dell’interesse nazionale»: «E’ importante che gli studenti riescano ad orientarsi dentro un’offerta formativa delle nostre università che spesso è un po’ dispersa e dispersiva. Ma è altrettanto fondamentale che non ci siano barriere geografiche: dobbiamo lavorare perché i nostri ragazzi facciano esperienza all’estero e trovino poi le ragioni per tornare, così come devono arrivare talenti da fuori per formarsi nel nostro sistema».
Impresa complessa.
«Come mi ha insegnato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, sono io stessa il ministro per l’internazionalizzazione delle università e sto girando dalla Cina al Giappone, dall’Uzbekistan al Messico per favorire collaborazioni e scambi, grazie anche a politiche di co-finanziamento che permettono alle realtà più piccole di partecipare».
Eppure i dati sono impietosi: meno della metà dei diplomati si iscrive all’università.
«Finora l’orientamento era pensato come un beauty contest per le università che si presentavano agli studenti in procinto di fare la maturità: orientamento invece vuol dire ascolto dei ragazzi e aiuto per trovare la propria strada. Operazione sempre più complicata perché oggi il contesto di riferimento non è più soltanto il proprio Paese ma il mondo. Per questo l’orientamento va iniziato il prima possibile, già alle elementari. Penso per esempio alle Stem…».
Altro punto debole: soprattutto per le studentesse.
«E’ colpa anche di pregiudizi che resistono. Purtroppo ci sono famiglie, e non poche, in cui si decide che tocca ai maschi studiare le materie scientifiche o addirittura che all’università ci vanno soltanto loro».
Forse è anche perché i costi, specie per i fuorisede, sono tutt’altro che bassi.
«L’Università italiana non costa tanto ed è di alto livello. Il 40% degli studenti è esentato dal pagamento delle tasse e c’è un robusto sistema di borse di studio. Io credo che invece contino di più i pregiudizi, come dice Amalia Ercoli-Finzi: “Nella mia famiglia mia sorella era quella bella, io quella intelligente”. Purtroppo proprio perché sono pregiudizi, ci vorrà molto tempo per superarli».
Le università la seguono in questo sforzo di cambiamento?
«In parte sì, capiscono che il mondo sta cambiando. E perché senza un’apertura internazionale ci sono atenei, soprattutto i più piccoli, che rischiano di chiudere. Anche sulla questione delle università telematiche all’inizio c’era una grande resistenza».
Più che altro un’assenza di regole che ha permesso il proliferare di istituzioni senza qualità.
«Ho ereditato un sistema con tante criticità, ho fatto anche esposti alla procura contro i laureifici ma non sono io a poterli i chiudere o sanzionare. Poiché qui è in gioco anche il diritto allo studio, oltre a rompere le barriere di accesso – penso a Medicina e ai concorsi – bisogna dare regole certe per la qualità dell’offerta formativa degli atenei telematici».
Si potrebbe cambiare la legge.
«Sto cambiando regole: le telematiche dovranno assumere professori a tempo indeterminato, avere dei dottorati e dimostrare di far ricerca. Ma anche le università tradizionali dovranno investire sulla parte online: allenterò il vincolo della didattica a distanza per gli atenei che oggi è del 20 per cento».
Far didattica in presenza è più costoso, i rettori si sono lamentati dei fondi previsti nella prossima legge di bilancio.
«Hanno ragione a dire che i criteri di finanziamento, il Ffo, vanno rivisti e che il meccanismo più studenti-più soldi può provocare delle distorsioni. Però un sistema universitario pubblico ma autonomo deve essere anche responsabile di spendere bene i soldi dei cittadini: autonomia non vuol dire che quando sono finiti i fondi si bussa alla porta dello Stato. Purtroppo in passato sono stati aperti, anche per colpe politiche, atenei che sono doppioni, senza un bacino di utenza sufficiente. Questo crea una concorrenza al ribasso per accaparrarsi gli studenti».
E cosa si potrebbe fare?
«Io vorrei favorire gli accorpamenti e la governance unica».
Un rettore solo per due atenei?
«Bisogna dare agli studenti offerte formative all’altezza: replicare gli stessi corsi in uno spazio geografico limitato provoca danni».
Aumenterà la spesa per l’Università, che è una delle più basse dell’Europa?
«Rispetto al 2019 c’è un miliardo in più, senza contare i fondi del Pnrr».
Che però non riguardano la spesa corrente.
«E’ sbagliato fissarsi sulla spesa corrente e non sugli investimenti. Il messaggio del Pnrr è proprio questo: per far tornare i ricercatori non basta tagliare le tasse, serve offrire loro occasioni importanti di lavoro, circondarli di comunità scientifica. E poi dobbiamo passare dalla ricerca di base a quella applicata, come abbiamo fatto con il bando del telescopio per le onde gravitazionali proponendo una miniera dismessa della Barbagia: se vinceremo lì sorgerà la città europea della scienza».




















































25 ottobre 2024



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